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  Vento da nord e vita breve

Pubblicato Domenica 17 Gennaio 2016 alle 22:58 da JACOPO


Slegati e liberi da qualsiasi vincolo, sulla grande placca sopra la parete del Vortice di Fiabe in Val di Mello. Siamo in formazione esplorativa, il giovanissimo Federico, i fratelli Paolo e Giampy ed io.
Veniamo da Vortice di Fiabe, una via bruttina sulla Stella Marina; è ancora presto e abbiamo il tempo per lanciarci in quello che è il massimo per un alpinista: la pura ricerca.
La placca ha una forma bombata, un enorme scudo color grigio ruggine che si sviluppa per qualche centinaio di metri sopra gli strapiombi del Giardino delle Bambine Leucemiche: è un po’ di tempo che l’osserviamo dal basso.
Un giovane faggio appoggiato alla parete, ci fa da scala per sormontare una linea diagonale di piccoli strapiombi che sembrano posti in sua difesa. Sopra, una vena bianca corrugata fa da sentiero naturale e ci guida con lungo traverso a sinistra nel cuore della parete.
Siamo tutti e quattro giovani studenti a tempo indefinito nel senso che non abbiamo idea di quando e come laurearci e a tempo pieno solo Alpinisti di Punta.
Definirsi alpinisti di punta è una magnifica collocazione ideale.
Non abbiamo futuro lungo e quindi neppure problemi di laurea, di denaro, di figli da crescere.
Ci riteniamo esentasse nel termine più ampio della parola perché siamo a tempo breve.
Se il senso di transitorio della vita lo si percepisce anche da sdraiati nel letto, slegati a cinquecento metri da terra appesi ad un cristallo o a un’esile scaglia di granito lo si sente molto di più.
“Che ne dite di fare un salto da qui, urlo mimando il gesto, spiccare un volo come un corvaccio e passare con la leggerezza di un corpo senza peso nell’aldilà?
Anzi, il peso del mio corpo sarà solo un vostro problema, quando mi verrete a recuperare…”
Ma chi vuoi che ti venga a recuperare, risponde stizzito Paolo, al massimo ci buttiamo due pietre sopra, come si fa per bon ton dopo una cagata nel bosco.

Si sale rapidi e leggeri, perché il pensiero della morte è comunque lontano.
Ne è piena la letteratura di montagna: le cronache himalayane, trasudano sangue anche le vie classiche vicine come lo spigolone nord del Badile o il facile sentiero alla cima della Grignetta sopra Lecco, ma tutto sommato per noi è solo cronaca che riguarda chi non è capace di arrampicare.
“Non volete morire leggeri e rapidi come una meteorite tra le rocce?
Preferite terminare i vostri giorni in un letto d’ospedale?
Invecchiare è una brutta bestiaccia, ci farà perdere tutti capelli e sarà lo sfarfallio dei nostri crani lucidi a segnalare a chi sta sopra la nostra presenza. Saremo dotati di nasi enormi perché quelli non finiscono mai d’allungarsi al contrario della coda che non avrà nemmeno la lunghezza per sbucare dalla patta. E quel che è peggio, per le ragazze, avremmo la visibilità dell’aria, saremmo trasparenti come la flatulenza.
Forse hai ragione, dopo i trent’anni è meglio passar a miglior vita, mi risponde Giampy, il vecchio del gruppo, ma è il momento di transizione che non ho ben chiaro.
Siamo seduti su un piccolo risalto di roccia, un piega della parete al cambio di pendenza.
La parete si raddrizza, quello che fino adesso è stato un facile gioco, si presenta come un enigma di difficile risoluzione.
La roccia è quanto mai compatta, forse la più compatta che abbia mai visto.
Non una fessura, una lama, uno spuntoncino dove inserire una sicurezza.
Solo una delicata vena, poco più che disegnata sulla roccia, attraversa a destra e va ad inserirsi in un diedro svasato, tanto aperto che sembra più una scanalatura nella parete.
Forse di là si passa, è il pensiero comune.
Si passa, forse, ma di sicuro chi ci prova ha ben poche possibilità di tornare indietro e senza rientro, se cade da lassù, non ha speranza di salvare la pelle.
Chi va in esplorazione, miei giovani eroi, nonché Alpinisti di Punta?
Chi è pronto ad affrontare il suo Grande Presente?
C’è un attimo di silenzio e di sconcerto.
Patabang...in ogni caso l'uscita
è verso il cielo
Se non vi scoccia, vado io, sussurra Federico, nel colpevole silenzio di noi, meno giovani ma di certo vecchie e navigate pantegane di parete.
Gli diamo tutti i consigli che abbiamo maturato in tanti anni di placche, il materiale indispensabile e una pacca di benedizione.
Federico esce come un astronauta nello spazio libero; parte dalla nostra cabina di pilotaggio verso l’ignoto, collegato solo da una sottilissima corda di otto millimetri.
Lo seguiamo passo dopo passo, con un ansia tremenda, perfettamente consapevoli che la sola possibilità di vita è verso l’alto.
Ma Federico è un treno diretto, non si ferma mai, in breve è un puntino giallo su un profilo verticale.
Cinquanta metri di corda scorrono veloci nelle nostre mani. Federico non può fermarsi. Non ha più corda e non ci sono fessure dove predisporre una sosta. Velocemente ne giuntiamo un'altra così ha altri cinquanta metri a disposizione.
Dopo il lungo traverso, ha raggiunto il diedro svasato, sale rapido, non si capisce se è difficile difficilissimo o mortale; se la velocità dipende dagli appigli o dalla disperazione.
Ma è certo che quel diedro deve mostrare un’esposizione terrificante.
Lo vediamo passare il punto di massima pendenza, ora la parete s’appoggia, dovrebbe essere più facile, raggiunge una piccola cengia, è fatta.
La via si chiamerà Patabang e per anni resterà una via mito della Valle.

Presagio – Il vento da nord raramente porta neve.
L’umidità la scarica sul versante Svizzero, in Engadina, dove scatena copiose precipitazioni.
Qui al sud delle Alpi, si profila un orizzonte alto di nubi chiare, tirate dal vento, che dalle cime di confine, si dissolvono via via che si scende verso sud.
E’ un cielo alto, freddo, secco e scuro: così com’è stato il periodo della morte per il gruppo dei Sassisti.
Federico all’uscita dagli strapiombi della Bodenchaff
sul Precipizio degli Asteroidi

Il primo dolcissimo amico a lasciarci è il più giovane.
Federico è il più veloce arrampicatore dei nostri tempi, quaranta secondi cronometrati per salire da capo cordata un tiro di Luna Nascente, una passione dichiarata per il colore giallo e una più riservata per le banane: ne riusciva a mangiare un intero casco in poco tempo.
Federico Madonna
bivacco sul precipizio
Siamo appena rientrati da una grande salita sul Precipizio degli Asteroidi in Val di Mello.
Una via nuova, sui grandi strapiombi a sinistra della Tromba.
Abbiamo bivaccato alla base e in vetta, raggiunta alla sera sotto un cielo profondo e stellato tracciato da lampi estivi.
I sacchi piuma stesi sui mirtilli e una grande felicità per aver aperto la via Bodenshaff.
Nel pomeriggio del giorno successivo siamo a Sondrio, è appena finito un violento temporale: che facciamo?
Scendiamo il torrente con le canoe: grandi emozioni a pochi passi da casa.
Federico non sa nuotare ma l’acqua nel torrente è generalmente bassa, gli passo comunque il mio giubbotto salvagente. Il fiume è in piena, di colore marrone.
Le canoe prendono subito velocità, c’è una piccola cascata; una briglia artificiale costruita dall’uomo per rallentare il corso dell’acqua e sotto il salto, una pozza profonda, di qualche metro.
Federico si rovescia e rimane prigioniero con la sua canoa sotto la cascata.
Non comprendo per nulla la criticità della situazione.
Getto la mia canoa sulla sponda e mi tuffo a nuoto per dargli una mano: sono pochi metri e sono certo di riuscire a portarlo a riva.
Ma una volta dentro quel vortice artificiale, mi rendo conto che sono finito in una trappola mortale.
Continuo ad andare sotto anche se sono un buon nuotatore, un mezzo respiro e di nuovo giù.
Federico è in pieno panico, il corpetto salvagente non serve a nulla e continua a bere: l’acqua non ha consistenza, non sostiene, è un fluido che scorre verso il basso, che trascina sotto.
E’ una tortura straziante, disumana.
Non so quanto tempo restiamo prigionieri su quel patibolo ma non meno di 30 eterni minuti.
In quel vortice di schiuma, acqua e braccia tese verso l’alto, appare la canoa rovesciata di Federico, anche lei catturata dal gorgo.
Se riesco ad aggrapparmi a qualcosa di solido, siamo salvi e mi lancio con tutta la forza. Un guizzo verso l’alto, la tocco, l’ho quasi afferrata ma vado giù. Proprio in quell’istante preso dalla disperazione, Federico si è aggrappato alla mia spalla.
Poi perdo conoscenza e vado sotto, molto sotto e probabilmente sul fondo trovo la corrente che mi butta fuori da quella pozza infernale.
Rinvengo per l’urto contro un oggetto solido che istintivamente afferro: ogni istante con la bocca fuori dall’acqua, sento le forze decuplicare.
Ogni respiro è energia pura che entra nel corpo.
Al decimo respiro sono in grado di guardare dove sono finito e cosa sta succedendo. Mi trovo aggrappato ad un masso in mezzo al torrente, un centinaio di metri a valle della cascata. Sulla riva, alcune persone sono accorse in aiuto.
Mi lanciano una fune: mi lego, sono salvo.
Vi prego, siamo in due, aiutate il mio amico -
Sono preso da fremiti e convulsioni, mi metto in posizione fetale e mi lascio andare.
Sono all’ospedale nel reparto di rianimazione.
Telecamere, monitor, sonde, e tante coperte.
E’ passata una notte e mi sento benissimo, ho una fame boia e voglia di vedere Federico: è ricoverato nel reparto affianco così mi rassicura la mia ragazza Ilaria, l’unica che hanno lasciato entrare.
Ma Federico è morto.
L’hanno trovato alcune centinaia di metri più a valle; che respirava ancora.
E’ un colpo tremendo.
Poi il funerale ad Alzano in Val Seriana, e l’incontro con Giulia e Renzo i suoi carissimi genitori.
Se avessi saputo del suo breve destino, mi confidò Giulia, gli avrei lasciato più libertà di vivere i suoi pochi giorni di passione.
Sua mamma è una persona dolcissima, con una forza da leone.
Per diversi anni ad ogni natale riceverò un maglione fatto con le sue mani: è come se lo facessi per mio figlio c’è scritto.
Con quei bellissimi pullover gialli, ho portato tante volte Federico nella meravigliosa Val di Mello.
Rimaneva un buco nel mio Maggiolone Volkswagen ogni volta che andavo ad arrampicare, un posto libero dove sedeva Federico, perché la morte assieme al dolore lascia il vuoto: e il vento soffiava sempre da nord.

Giampi Masa 23 anni, detto il vecchio
E’ arrivato l’inverno, giornate brevi, la spola con Milano e l’università.
Mi chiama Alessandro Gogna uno degli alpinisti più noti d’Italia, mi propone una salita su una cascata di ghiaccio in Val Malenco; ma devo dare un esame e non ho tempo.
Forse è libero Giampy gli rispondo.
Giampy è il fratello anziano di Paolo, ha 24 anni ma da sempre è chiamato il vecchio.
Abbiamo fatto lo stesso corso di guida alpina e tante volte arrampicato insieme sia per diletto che per professione.
Frequenta l’ultimo anno di ingegneria, infonde una saggezza e una tranquillità così strana per la sua età.
Ed è pomeriggio, all’imbrunire quando risento al telefono la gelida voce di Gogna: il tuo amico Giampy è caduto, è morto, avvisi tu i famigliari?
Come morto e dove e perchè?
Sono allibito, esterrefatto, telefono a suo fratello Paolo.
Quando arrivo in Val Malenco, è già tutto finito, il corpo è stato recuperato dalla base della cascata e portato a casa.
Giampy è disteso immobile sopra il tavolo dello studio, la barba nera a coprire il volto da ragazzo.
Avevano raggiunto la cima della cascata sopra il paese di Tornadi e al posto di scendere dal sentiero, Giampy e Alessandro avevano preferito tornare in doppia dalla parete.
Tra un ancoraggio e l’altro nel recuperare la corda, Giampy ha perso l’equilibrio ed è scivolato nel vuoto: se n’è andato silenziosamente, in punta di piedi com’era vissuto.
Con Federico il gruppo dei Sassisti ha perso l’improvvisazione, la passione allo stato puro, con Giampy la riflessione, la capacità di ascoltare, di dare al tempo e alle cose il giusto valore.
Anche Paolo con la perdita di suo fratello ha lasciato quella straordinaria spensieratezza che lo aveva sempre caratterizzato.

L’ombra della morte diventa un pensiero costante, opprimente, un conto aperto che come Alpinisti di Punta, chiede di essere saldato.
Siamo tutti pronti ad abbassare il livello di rischio: meno cascate e più facili, meno sci estremo, meno roccia e più protetta.
Sta finendo l’inverno, mi chiama Antonio, c’è stato un incidente, una valanga, Ermanno dovrebbe essere rimasto sotto: ti aspetto fra cinque minuti.
Una jeep dei vigili del fuoco arranca lungo una ripida strada ingombra di neve, fa poche centinaia di metri e affonda. Oltre non riesce ad andare.
Montiamo le pelli, gli sci e partiamo. L’ombra degli abeti si profila sul bianco della neve; non è la luna ma le fotocellule dei vigili del fuoco che cercano d’illuminare l’area: il passo è rapido quasi affannoso, difficile tenere il ritmo di Antonio che è uno sci alpinista di lungo corso.
Ma poi mi confida: è inutile correre, è passato troppo tempo, non ci sono speranze di trovarlo ancora in vita.
Ermanno con una ventina di amici era salito su questa piccola montagna, quattro passi con gli sci sopra Sondrio su un’alpe che d’estate è frequentata da pastori e vacche.
Decidono di dividersi: mentre gli altri incominciano a scendere, con Oscar e Micio salgono il piccolo dosso alle spalle dell’alpe.
Stanno ancora percorrendo il piano che li porta al breve pendio che si stacca la slavina: li colpisce sulle gambe, li ribalta a terra e li ricopre.
Sono in maniche corte perché fa caldo e stanno salendo.
Nell’impatto, Micio ha la fortuna di perdere gli sci, di avere le gambe libere e di riuscire a svincolarsi da quell’abbraccio mortale.
Ermanno e Oscar sono prigionieri a pochi passi da lui sotto meno di un metro di neve.
Senza pensarci, Micio cerca aiuto, il resto del gruppo dovrebbe essere poco lontano.
Corre all’impazzata verso il basso ma non ha gli sci ed affonda: la distanza con gli amici aumenta. Impiega due ore ad arrivare all’auto, ma non trova nessuno.
Ermanno Gugiatti sull’ultimo tiro
di Nuova Dimensione
Ancora giù di corsa lungo la strada, fino al primo telefono.
Quando partiamo sono già passate 3-4 ore dall’incidente; seguiamo le profonde orme degli scarponi lasciate da Micio nella sua precipitosa discesa fino alla valanga: sono passate altre 2 ore è notte fonda.
Pochi colpi di sonda e troviamo i corpi.
Oscar dev’essere vissuto poco, ha neve in bocca ed è già rigido, il povero Ermanno invece si è scavato un antro attorno al viso: probabilmente ha aspettato a lungo i soccorsi prima di addormentarsi nel gelo.
Continuano ad arrivare persone, conoscenti, il Soccorso Alpino, la Guardia di Finanza.
Carichiamo i corpi sulle slitte, scendiamo con lunghe diagonali dove i gusci di vetroresina, continuano a scivolare e ribaltarsi.
Più in basso una baita è stata aperta ed è illuminata.
Ci fermiamo, troviamo altri amici tra cui il fratello di Ermanno, Franco.
All’interno c’è una temperatura altissima, è stata scaldata il più possibile per fornire un primo ricovero se fossero stati ancora in vita.
Il grande Ermanno qualche anno prima, aveva fatto un’impresa rischiosa ed eccezionale; la prima salita invernale al pilastro Nord Ovest del Cengalo in stile alpino e ci ha lasciato in un prato di neve, a pochi passi da Sondrio.
Quella morte così imprevedibile cambiò anche la direzione del vento.
Non so come ma fui perfettamente consapevole che la nube grigia di morte rimasta ferma per sei mesi, si era finalmente dissolta: sui Sassisti era tornato il sole e i colori della vita.
L’abbiamo fatta franca, la morte da Alpinista di Punta, eroica rapida e leggera, è diventata una chimera: morire giovani è sicuramente una disgrazia, invecchiare pure ma probabilmente è meglio.

Jacopo Merizzi


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I COMMENTI DEI LETTORI

Inserisci il tuo commento
1 Inserito Martedi 26 Gennaio 2016 alle 10:10 da Pietro Scari
 
vento impetuoso da nord, brivido di giovinezza
2 Inserito Mercoledi 27 Gennaio 2016 alle 18:06 da Paolo Masa
 
Bello, intenso, doloroso,
equilibratamente cinico.
bravo

3 Inserito Mercoledi 27 Gennaio 2016 alle 20:38 da Luca Biagini
 
La perdita di un amico è qualcosa di tremendamente doloroso.
Soprattutto in gioventù.
Ma qui tutto è impermanente. Non dobbiamo preoccuparci troppo di cose inevitabili come la morte, piuttosto di ciò che si può cercare di governare, almeno fino ad un certo punto, ovvero della vita. Caro Jacopo nel tuo racconto riconosco quella ricerca di felicità e libertà che mi ha sempre indicato il sentiero.
Un abbraccio.
4 Inserito Martedi 2 Febbraio 2016 alle 10:09 da P.Cucchi
 
Sono passati 37 anni ma il ricordo di Ermanno è ancora intenso e lo sarà per sempre.
Un pomeriggio slegati al sasso di remenno: da "primo" lui padre di famiglia e più esperto da "secondo" io 15 anni una cordata senza corda.
Io con le scarpe da ginnastica lui con le prime pedule le EB super gratton.
Sentivo il suo respiro appesantito dalle nazionali senza filtro lui il padre io il figlio e da qualche parte lo spirito santo slegati ma uniti come non mai.
Lo seguivo come fossi il suo cagnolino poi sul lato destro della parete sud a destra della via "olza pigolza" per intenderci Ermanno entrò in trance sciamanica e aprì una via nuova diretta costretto ad abbandonarlo ero il testimone di una prestazione ai massimi livelli non solo dell'epoca.
Una neve marcia e bastarda l'ha portato via.
Sorge un dubbio se siamo ancora vivi forse è perchè siamo delle merde.

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