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  I protagonisti della Valle - Mario Giacherio

Pubblicato Venerdi 18 Marzo 2011 alle 04:07 da ARRT


Anni 70 di ritorno dalla Nord...
foto: Archivio Mario Giacherio
La scheda - Mario Giacherio

Milanese, è uno dei primi “foresti” a far parte dagli anni ’90 dei Ragni di Lecco. Dopo la ripetizione delle classiche delle Alpi, inizia la sua maturità alpinistica condizionato dai nuovi apritori francesi, e ben presto si dedica all’assidua collezione di tutto quello che viene aperto su roccia buona e protezione moderna. Per quasi 20 anni scala assiduamente nei paradisi alpini della Svizzera e del Monte Bianco, condividendo la sua enciclopedica conoscenza di pareti e vie con una variopinta schiera di soci e amici. Arrampica ovunque, è tra i primi a frequentare la roccia di Finale negli anni ’70 e a cercare l’ultima “couenne” chiodata in quel di Ceuse nel nuovo millennio. Su Thunder
Road, lato nord del Remenno, ha lasciato la pelle della sua ultima via difficile. Prima per la neonata Alp, poi per Punto Rosso e ormai da 10 anni per Meridiani Montagne cerca di raccontare agli altri un pò di quello che ha visto e vissuto guardandosi attorno.

Alcune delle sue salite in valle: Poesia di una squaw dalla riserva, Mani di Fata, Sabor Latino, L’infinito, Si sta come d’autunno, Sul bordo dell’Arco di Stella, Ultime grida dalla falesia.

L'intervista - Mario Giacherio

Anni 70
foto: Archivio Mario Giacherio

2) Come e quando hai iniziato ad arrampicare ?

Oggi ho 56 anni, condivido come milioni di altre persone, l’amore per tutto ciò che la natura ci mette a disposizione, dal mare ai boschi alle montagne. Scalare è solo uno di questi aspetti. Per anni ho tentato e in parte credo anche di esserci riuscito, di non fare della montagna una droga in cui rifugiarsi o evadere, ma uno stile di vita che fosse sobrio, naturale, umano non solo con i margari, ma anche con chi “prende la metropolitana tutte le mattine alle 8”....
Ho iniziato ad arrampicare che avevo più o meno 14 anni coinvolgendo i miei compagni di scuola. La mia prima corda, di uso probabilmente domestico, era lunga 20 metri, di nylon, comprata per corrispondenza. Quella stessa estate (parliamo del ’69) lavorai i tre mesi estivi vendendo deodoranti “porta a porta” e subito comprai la mia prima corda in perlon, ovviamente rossa.

3) Quale era la tua disciplina d’arrampicata preferita (in cosa ti sentivi più forte?)
Inizialmente, la scalata d’aderenza, proprio perchè non richiedeva grandi qualità atletiche, ma principalmente equilibrio e un pò di coraggio. Infatti Mello era frequentata da tutti quelli che tornavano da Finale con le orecchie bassissime e al massimo concatenavano 2 o 3 trazioni. Poi con la maturazione degli anni e un approccio più sportivo, ho prediletto ogni forma tecnica e atletica di movimento sulla roccia: dalla placca verticale ai lunghi soffitti orizzontali. Proprio dove ero più scarso iniziava la mia sfida a riuscire su ciò che ero incapace: e allora ore e ore di pannello per diventare sempre più strapiombante....

4) Hai o avevi dei miti a cui ti sei ispirato per la tua carriera di scalatore?
Certo, ma come sempre ogni lustro si cambia un gusto: così inizialmente era Motti, poi Grassi, poi i moderni apritori degli anni ’80 (Piola e Remy). Per restare nella realtà della “valle” senz’altro Ivan e il Bosca. Il primo, non tanto per gli exploit arrampicatori ma come capacità espressiva di vivere e raccontare il suo alpinismo-arrampicata. Il Bosca per quella dose di umanità disegnata nel suo sarcastico sorriso, alla sua umiltà e disponibilità a sputtanarsi senza remore (con riferimento al periodo del trapano e le vie dall’alto).

5) Che rapporto hai avuto con i climber stanziali e le loro salite storiche?
Con Tarcisio, appena finiva una via mi telefonava, o ero io a rompere le palle alle 8 del mattino per avere tutti i dettagli e andare subito a ripeterla.
In particolare con Paolo e Sonja, l’amicizia e la frequenza extra scalata, ha contribuito a saldare un intesa che andava oltre ad ogni arrampicata. Con Antonio Bosca, ogni volta che ci siamo incontrati mi ha trasmesso una inusuale serenità che tutt’ora conservo come un caro ricordo. Bello anche il legame di quegli anni con Prina e la sua truppa: la via era in funzione dell’amicizia e quello che reciprocamente ci si trasmetteva. La vita di ogni giorno e la passione di scalare mi hanno legato per anni a Oscar Meloni, mio caro e paziente compagno di scuola sin dalle superiori. Come tutti i “Barzaghi” della situazione, quando mi cagavo sotto, facevo andare avanti lui, che lusingato accettava. Poi le cose cambiano col tempo e tra le nuove frequenze, un sincero Beppe Villa, sarà mio compagno di cordata per 10 anni sulle vie più belle delle Alpi.

Anni 70 con Lidia
foto: Archivio Mario Giacherio
6) Hai partecipato alla creazione di un nuovo modo di vivere l'alpinismo da "lotta con l'alpe" a "piacere nel muoversi nella natura", diciamo sei stato un "rivoluzionario". Come hai vissuto le successive evoluzioni dell'arrampicata fino all'affermazione di una vera e propria disciplina sportiva?
Per me aver “partecipato” significa avere condiviso quello che veniva espresso dagli altri (in particolare dal mondo alpinistico occidentale) attraverso gli strumenti degli anni ’70 (libri e riviste) in quei concetti veramente rivoluzionari, che affiancavano lo sport nella natura della montagna alle reali tensioni di cambiamento sociale. Ci ero già arrivato per conto mio a certe conclusioni ma le letture di Motti mi facevano “non sentire solo”. I capelli lunghi di Giancarlo (Grassi) mi consolavano, non ero l’unico “barbone contestatore” che amava la scalata. La “libertà di impazzire senza paura, senza problemi” del Mucchio Selvaggio era la bandiera interiore di un cambiamento. Per ciò che riguarda l’aspetto puramente tecnico, ho vissuto una vera evoluzione della tecnica dell’arrampicata. Ad un certo punto, mi ero convinto che migliorare su granito significava, passare dalla semplice tecnica di spalmare le suole sulla roccia in aderenza, ad una progressione sempre più verticale dove l’uso della trazione delle falangi sui cristalli e l’appoggio dei piedi su microappoggi era indispensabile. Quindi sempre più una tecnica da calcare applicata al granito. Il viaggiare ovunque, il testarsi su ogni terreno roccioso e confrontarsi con i gradi degli altri ha contribuito molto a capire dove volevo arrivare. Il passo è breve, gli allenamenti e i pannelli della fine anni ’80 inizio anni ’90, segnano la differenza di alcune salite, a mio modo di vedere, evolutive nella progressione estrema a Mello. Con l’apertura della mia Cipsi all’Alkekengi, che allora (nell’89), nell’incertezza dei gradi e della loro conversione nella scala francese e nella falsa umiltà di non voler “banfare”, avevo stimato 9- (e ancora oggi gradata 7b sulle recenti guide), credo di aver come minimo eguagliato la somigliante e molto più recente 5.13, alla Lost Arrow del Sergent, tutt’ora valutata 7c+/8a.

7) La Valdimello... Quando ne hai sentito parlare la prima volta e perche' hai deciso di scalare proprio li?
Il regno di Mello non lo conoscevo ancora, ma una delle cose più trasgressive che mi piaceva fare con la mia banda di “compagni di scuola” improvvisati alpinisti, era quella di frequentare il locale invernale della Giannetti (così non si pagava) e tentare i primi approcci esplorativi alle grandi montagne vicine. Un bel giorno entro in una cartoleria di via Pellegrino Rossi a Milano, e un ragazzino della banda dell’Ivan (mi è rimasto impresso perchè era vestito con una palandrana nera) mi dice che mi aveva visto in Masino e mi invita a frequentare il loro giro. Ma la “conversione” avvenne quando sugli itinerari staccabili dell’encicopledia La Montagna, in uscita mensile, fu pubblicato Il Precipizio, il primo settimo grado d’Italia.

8) Arrampicare in Valle e' un esperienza unica, ma affrontare certi itinerari puo' voler dire rischiare le piume... Qual'e' il tuo rapporto con la paura di cadere, di farsi male, di morire? Come sei riuscito a "contenere" questo sentimento?
Io sono sempre stato contrario al rischio, intenso come mito del superuomo e filosofie Lammeriane annesse e connesse. Per questo non mi sono mai scandalizzato dell’uso degli spit di protezione laddove ovviamente non si poteva che proteggersi che con quelli per passare. E oltre a tutto, quando gli spit, sopratutto in quei tempi, servivano per arrampicare su difficoltà elevate, rispetto a certe salite con impegno accessibile a qualunque capra. Oggi stesso, in un discorso generale sul rischio in arrampicata, sono perfettamente d’accordo alla chiodatura engagee e obbligatoria, ma solo quando non comporti gravi rischi (mortali o simili) e quando non sia fatta per dimostrare la propria bravura o incoscienza e trasmettere un messaggio di emulazione più vicino alla competizione tra le persone che alla sfida interiore e personale. Poi c’è il discorso buon senso e capacità tecniche personali di scalare: un conto è l’aderenza di Nada por Nada, di Mani di Fata o la biontite di Amplesso e un altro quella dell’Okosa o certe vie di superStefano Pizzagalli. In una recente intervista, una (donna) forte climber svizzera ha affermato che anche su “Hotel Supramonte” la chiodatura avrebbe potuto essere più distanziata....

9) Una aneddoto veloce che ricordi con piacere?
1982: un salterellante Jacopo al Remenno mi racconta che ha appena concluso il corso guida, che è una cazzata, che non è difficile ecc ecc. Alcuni mesi dopo, mi iscrivo, preselezione poi corso e bla bla. Mi trovo al modulo di scialp con il Bosca (che oltre al top in arrampicata era già un provetto scialpinista e aveva pubblicato delle guide sulla Valtellina), mandiamo a cagare (per modo di dire) gli istruttori (old style) e puntualmente per vendetta ci segano tutti e due.


foto: Archivio Mario Giacherio
10) Un consiglio per i nuovi alpinisti?
Immagino riferito a Mello: non cercare disperatamente un appiglio ma appoggiando il palmo della mano sul granito, convincersi che la soglia degli equilibri è molto oltre.

11) Cosa rimpiangi: cosa non hai visto o fatto?
Il settimo tiro in libera di Anche per Oggi, liberato da Giovanni Quirici. Pur avendolo provato diverse volte, non sono riuscito neppure a concatenare corda dall’alto, quei 10 metri. Ed è solo 8a. La dice lunga della fantastica opportunità che ha il nostro corpo di adeguarsi e fantasticare sulla roccia.

12) Quali sono le vie più belle della valle?
Flauto magico, Filo d’Arianna, Sul bordo dell’Arco di Stella, Anche per Oggi in libera.

13) Le vie più epiche ed ingaggiose?
La maggior parte di quelle di Jacopo tra cui proprio Amplesso, ma anche Vedova e senz’altro Brutamato che, anche se non dev’essere estrema come difficoltà, lo è molto come ingaggio anche in considerazione del probabile stato di precarietà delle ormai ventennali protezioni fisse.

14) Come vedi il futuro della Valle?
Come arrampicata bene: chi scala è solitamente persona devota al rispetto dei luoghi. Il lavoro competente di alcune guide (come Giovanni Ongaro) di manutenzione e lifting di alcuni itinerari è encomiabile.
Molto, molto male tutto il resto: scandalose le ristrutturazioni delle baite adibite a seconde case, e la proliferazione selvaggia di bar, baretti e agriturismi è una porcheria. Come già accaduto nei nostri luoghi paradisiaci, dove tutti si sarebbero “stracciate le vesti” a vedere come oggi sono ridotti, (leggi Val Bodengo, Val Codera, Val dei Ratti e le decine di kilometri di inutili strade “interponderali” della bassa Valtellina) anche il fondovalle di Mello sarà prima o poi asfaltato, e allora molto meglio che ci pensi l’ira del Qualido (frane ciclopiche) a far capire che i padroni non sono “loro”.

15) Nella truppa di giovani che si muovevano in Valle chi erano i più infami?
Vitalozzo era uno dei più temuti: godeva quando si veniva ribattuti dalle sue vie. Si scoprirà solo in seguito alcuni dei suoi barbatrucchi (che ovviamente non svelerò) che gli permettevano di chiodare da spit a spit come se si fosse alti 2 metri.

16) E domani cosa farai
Quello che faccio da sei anni da quando sono in pensione, al mattino volontariato in Caritas, al pomeriggio ho un appuntamento: ascolto il rumore del vento che soffia da una montagna sconosciuta della val Codera, il Gruf. Il suo eco rimbalza di fronte sulle pareti d’Arnasca, si accosta come un urlo tra le pieghe del Manduino, per calare turbolento da Ladrogno, ed è lì che di solito lo aspetto.


Oggi !
foto: Archivio Mario Giacherio


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I COMMENTI DEI LETTORI

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1 Inserito Giovedi 31 Marzo 2011 alle 09:50 da Massimo
 
Molto interessante la tua storia.
Strabiliante il fatto inoltre che tu sia riuscito ad andare in pensione a 50 anni.

INCREDIBILE! MA COME E' POSSIBILE? MA DOVE LAVORAVI?


2 Inserito Lunedi 2 Maggio 2011 alle 17:36 da antonio pasquale
 
GRANDE MARIO, IL TUO BARZAGHI PER ECCELLENZA TI CERCA DA TEMPO, CON TE POSSO DIRE DI AVER DAVVERO SCRITTO UN PEZZO DELLA MIA STORIA,
3 Inserito Domenica 4 Novembre 2012 alle 15:59 da Stefano Tentori
 
Ciao Mario bellissimo leggerti
Ancora grazie per quello che mi hai dato e mi hai fatto vivere Davvero contento che hai trovato un nuovo equilibrio tra le selvagge montagne a cavallo tra Val Chiavenna e Valtellina



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