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Qualido - Il paradiso puo' attendere (2a parte)Pubblicato Giovedi 20 Novembre 2008 alle 05:50 da MASESCUEccoci qua, alla cengia del bivacco, di nuovo noi tre. Meglio non descrivere la risalite sulle corde fisse che hanno passato quassù l’inverno(ce n’è una che da rossa è diventata smorta): la sensazione è di salire con la cassa da morto sulle spalle, mentre il becchino ti prende le misure. Ma tutto va bene, e in serata siamo al punto più alto toccato l’anno prima.Abbiamo vinto i mondiali di calcio, e approfittando della lunga serata leggo la gazzetta dello Sport. La serata è piacevole, c’è il vino, gli strudel, fumo qualche sigaretta. Fa un gran caldo, si dorme. Il giorno dopo il Bosca ed io risaliamo le corde fissate la sera precedente, mentre Jacopo smonta il bivacco e prepara lo zainone. Ci si prospetta una giornataccia perché dobbiamo riprendere a chiodare a pressione. Sebbene l’idea mi deprima, mi offro per il primo turno ma, raggiungo con le staffe l’ultimo chiodo, ho un momento di sconforto nel guardare la liscia placca senza la minima fessura. L’idea di fare tanta fatica (mancano sei o sette chiodi a pressione) mi incita a trovare una soluzione diversa, un modo per evitare questo tratto. È così che perlustrando la parete scopro un gradino, oltre venti metri sotto di me, decisamente spostato a destra; poi da li alla fessura, sembra quasi uno scherzo. Dopo due secondi sto già prendendo la rincorsa per il primo di una serie di pendoli. Mi sento benissimo, inizio a pendolare sempre più forte, correndo con i piedi puntati contro la parete. Ormai sono velocissimo, sento il mio corpo oscillare nel vuoto, raggiungo il punto più basso, poi con la rincorsa salgo all’apice del pendolo sfiorando il gradino e… “merda, merda, merda” . con i piedi mi trovo venti centimetri più basso e non riesco a saltarci sopra, devo ritornare sempre di corsa per non grattarmi tutto contro la roccia. Diminuisco la velocità e quindi il raggio dei pendoli. Mi fermo. Ho la gola secca, sono esausto, devo aver fatto almeno duecentocinquanta metri senza fermarmi. Indico al Bosca di tirarmi alla sosta con un suono gutturale: la gola è talmente asciutta che non riesco a parlare. Ho una buona notizia da comunicare : sopra il gradino, all’altezza delle mani, c’è una lametta che sembra fatta apposta per attaccarcisi, se riesco a prenderla è fatta. Alla sosta il Bosca mi guarda con l’aria un po’ strana : “OK, adesso devi mollarmi venti centimetri meno di prima”. Mi riposo un attimo, respiro profondamente, controllo i nodi percorso da un fremito nervoso d’incertezza, poi parto. A metà pendolo penso al chiodo che mi regge. Essendo uno dei primi chiodi a pressione che abbia mai messo, lo immagino pessimo, ed in realtà lo è. Il primo tentativo fallisce, ma capisco di essere sulla strada giusta: al ritorno infatti appoggio il piede sul gradino e con le mani afferro la lametta. È fatta, sono fermo, ora la parete è ben articolata e salgo una ventina di metri prima di sostare. Fa caldo, e la luce è molto forte, il sole batte sulla parete, per fortuna il chiodazzo non ha fatto scherzi. Va il Bosca, poi Jacopo, le lunghezze di corda corrono più veloci, anche le difficoltà non sono quelle che si definiscono elementari. La media ormai è di un paio d’ore per tiro, la metà di quella iniziale. Raggiunta la mezzaluna capovolta, sopra la quale, secondo il nostro studio fotografico, dovrebbe esserci un secondo cengione: ormai è fatta, sembra si faccia in libera, sembra un tiro di “Luna Nascente” . Parto. Sento subito una vaga sensazione che qualcosa non va, una leggera punta di disagio, ma naturalmente mi convinco a superarla. I primi metri sono semplici; sopra però si fa dura, mi sento ingombrato da troppo materiale, mi sento come avessi un enorme culo che centuplica la forza di gravità. Vorrei fare un po’ di resting, metto un nut; mi sembra buono, mi abbasso di un metro e mi attacco con tutte e due le mani. Di colpo un gran senso di leggerezza, non peso più e misento libero. Sto volando. Mi giro con la faccia verso la valle e vedo nel Bosca una maschera d’angoscia, che con le mani protese verso l’alto compie un gesto disperato, quasi volesse prendermi al volo. Le corde si tendono e mi blocco dolcemente dopo una decina di metri, con qualche sbucciatura sulle nocche e contento di essere fuori gioco. La mezzaluna si mostra in definitiva meno banale del previsto, impegnando prima il Bosca e poi Jacopo in una arrampicata estrema. Quando Jacopo giunge al suo termine, non ci sono grida di gioia, ma una placca liscia, e sopra, prima di raggiungere la cengia, un muro di non so quanti metri. In più si è guastato il tempo, si sentono i primi tuoni e il temporale avanza dalla Val Merdarola; quando attacchiamo, il grande “Muro Del Pianto” è già sulle nostre teste. Il mio stato d’animo è un indescrivibile pozzo nero nel quale precipitano sconcerto, depressione, nausea, paura, disagio, stress, disperazione e forse ancora qualcosa d’altro. So solo che il Bosca è salito tra “lampi e tuoni” prendendo la parete quasi fosse un essere umano, per le orecchie (lame in realtà) , assicurandosi ai ciuffi d’erba, scivolando sui licheni verso l’alto, invocando la madonna. Finiscono le corde, ma lui non si ferma, bisogna allungarle con quelle che usiamo per recuperare lo zaino. Il Bosca non si ferma più, non si sente più, sembra volare. Nel gran casino non si può comunicare, l’acqua battente copre tutto, ognuno sembra fare per sé senza curarsi degli altri. Non so come, riesco a schiodare il tiro della Mezzaluna, passo i jumar a Jacopo e lui prende a salire le corde che il Bosca sembra aver fissato. Ha fatto sessanta metri il demonio! Recupero il saccone, mentre il bordo dello strapiombo mi ruscello addosso e lo assicuro alla corda fissa che scende dall’alto. Ormai Jacopo dovrebbe essere il cima. Il fragore dei tuoni e dell’acqua scrosciante è un rombo continuo. In mezzo a questo inferno non trovo più i jamar. Dove saranno finiti? E rendendomi conto che debbo lottare per la sopravivenza, mi scopro più fantasioso, oppure più incosciente. Faccio un prusik sulla corda con una fettuccia, me la lego alla vita, e parto. Che casino! Scivolo, pesto, il prusik non tiene affatto, però salgo, schiodo e do anche una mano a disincastrare il saccone che gli altri stanno recuperando sull’altra corda. “Siamo ben coordinati” penso. “Si però chi se ne frega, io sono nella merda più completa e se mi vanno in culo le forze…passare una notte qua, sotto l’acqua, appeso ad prusik che scivola lento sulle corde…” Schiodo, tiro lo zaino, tiro me stesso, sono pieno di materiale , avrò almeno venti chili di roba addosso. Per fortuna il temporale si è allontanato, anche se piove ancora. I fulmini… certo non puoi farci niente, se ti centrano “ciau Pep”, sei fatto. Ecco la cengia, Jacopo e Bosca quasi stremati dal freddo, io fradici e sudato. Poco sopra troviamo una specie di tetto spiovente sulla cengia; ce l’abbiamo fatta, anche stavolta il bivacco si fa giustamente col culo per terra. Mi rifiuto di piazzare l’amaca, sono distrutto, dormirò in un buco. Per fortuna qualcosa di asciutto è rimasto nel saccone, va tutto bene così; l’importante è dormire e le angosce le rimandiamo a domani, anche se sopra di noi vediamo solo grandi strapiombi neri e cascate d’acqua. Il soccopiuma a livello dei piedi è fradicio, ma per fortuna mi addormento. È il sole che mi sveglia, tiepido e piacevole. Aspetto che mi scaldi per bene, anche gli altri sono svegli. Sembra che Jacopo sia colata per tutta la notte una cascatella sulla testa. Io invece ho dormito come un ghiro e rido; sono contento. Colazione e via. Gli strapiombi, che sembravano senza uscita, per fortuna una ce l’anno e neppure così tremenda come ci era parsa la sera prima: si vede proprio che eravamo fuori di testa tutti e tre. Vado da primo in una fessura obliqua e strapiombante. Sotto, ottocento metri di vuoto stomachevole. Però si chioda bene, un po’ di libera un po’ di artificiale. La fessura aggira lo spigolo e conduce ad un cengione enorme : siamo fuori! In realtà mancano ancora duecento metri, ma adesso tutto diventa più facile , bisogna solo fare attenzione a non scivolare sui licheni . Il problema maggiore è il recupero dei sacchi, ma tra discussioni, risse e gesti osceni ce la facciamo. Alla fine della cengia ci colleghiamo con la parte finale della via Verde, quella aperta dagli Ungheresi: secondo e terzo grado, una camminata. Sono le tre del pomeriggio quando raggiungiamo la vetta. Mangiamo, abbiamo ancora una bottiglia d’acqua: siamo stati bravi a dosarla. Un paio d’ore dopo, scendendo, passiamo sotto la parete: un filo di tristezza, un filo d’angoscia. In ogni caso grandi emozioni. Paolo Masa - 1982
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Grandi! Che dire.
È un opinione assolutamente personale, ma penso che l'alpinismo ufficiale non avrebbe mai rischiato di toppare su una cosa del genere. Nessuno dei “grandi” avrebbe forse mai osato cimentarsi per poi rischiare di fallire.
Questi ragazzi erano “sacrificabili” e se avessero fallito non ne sarebbe importato nulla a nessuno, ma salite di questo genere sono da antologia alpinistica.
La rivoluzione sassistica forse qui ebbe fine in senso temporale, ma ebbe inizio la grande post-rivoluzione che ha portato a una fruizione della montagna in senso puramente ludico, gioioso e fraterno, in una libertà di pensiero mai dettata dagli asettici, retorici e ammuffiti associazionismi fino ad allora imperanti.
Ciao,
claudio