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  Qualido - Il paradiso puo' attendere (1a parte)

Pubblicato Martedi 11 Novembre 2008 alle 12:00 da MASESCU

Il Paradiso può attendere è stata la prima grade via della Val di Mello e l'ultima salita di rilievo dei Sassisti.
L'articolo che qui riportiamo è apparso sulla Rivista della Montagna nel 1982.



“Bevi, bevi tranquillo, tanto non se ne fa niente”.
La parete in controluce sembrava un enorme buco nero senza nessun significato.
Se avessi sentito un po’ di musica, anche per un solo minuto, da quando mi sono messo in ballo, forse almeno un piccolo stimolo l’avrei percepito…
Ma così no! Il suono che le associo è quello di un maglio, di una vecchia locomotiva  che sbuffa e sferraglia, di una catena di montaggio. Non c’è stato il minimo feeling  nemmeno per un minuto; neppure pensandomi “vittorioso in cima alla vetta”. E poi sono partito sapendo già che era impossibile: una prima fessura che si interrompe a metà parete, dove ne inizia un’altra che arriva in cima, ma spostata sulla destra di almeno cinquanta metri!. Per raggiungerla sarebbe necessario un pendolo di cento metri e qui non siamo in america. Però non sarebbe male metterci il naso e scoprire che in quel punto la parete si adagia di un paio di gradi, oppure che è tagliata da una fessurina fatta apposta per noi. A parte tutto è da dementi esserci presentati ai suoi piedi in questo modo: si e no una ventina di chiodi (l’assortimento tuttavia  è intelligente), due staffe “per quel poco di artificiale che dovremmo fare”, da mangiare per due giorni “tanto la voliamo fuori” e per bere una tanica una tanica da cinque litri da riempire a metà perché “se siamo più leggeri, siamo più veloci…”
E veloci lo siamo stati veramente, infatti siamo di nuovo qui ai suoi piedi.  In ogni caso l’abbiamo testata: tre tiri di zoccolo, placche e rustiche graminacee lisce e inassicurabili, prima di capire che le fessure iniziano troppo in alto.
Un paio di mesi dopo
Inutile descrivere tutti i preparativi che sono stati minuziosi, non ci manca neppure lo spumante (viziatelli i ragazzi), ma il più prezioso optional che abbiamo portato  è il Bosca.
Bosca il demonio, Bosca lo stoico, Bosca l’aderenziere, Boscal’allenato, Bosca il mangiaformaggi. Tutto bene quindi, tranne il tempo che proprio non va. In compenso va fortissimo il Bosca e siamo velocissimi a raggiungere la cengia in cima allo zoccolo. Una bella sosta e via, si mola il freno, il Bosca parte.Sopra di noi una placca verticale con alcune gobbe scavate dall’acqua; la corda scorre lentamente nel moschettone, però va: si passa! Chiodo-spostamento a sinistra- muscoli delle gambe tesissimi – in faccia una smorfia.  Attenti-movimento estremo…Wow! Ha preso una scaglietta. Silenzio, respiro profondo, slancio; raggiunge con i piedi un piccolo appoggio alla base di un piccolo appoggio alla base di una lama rovesciata, infila un friend e lo carica con tutto il suo peso… la lama tende ad aprirsi con un rumore sinistro. Ormai lui fa già parte di un altro mondo: è a non più di dieci-dodici metri da noi, ma noi siamo vivi,  mentre lui è già potenzialmente morto, o quanto meno molto rovinato. È questo che probabilmente lo fa andare avanti; due metri durissimi, un altro friend, un’altra lama capovolta. Sarà migliore? Chi lo sa, l’importante è tornare e lui ritorna, non ce la fa più. In un silenzio teso il Bosca  scende con il fiato sospeso, appeso alla corda che scorre lenta e continua, fino a quando tocca l’erba. È di nuovo tra i nostri, è tornato tra i vivi e porta la notizia che da dove è arrivato parte una lama sottile che arriva a qualcosa assomigliante ad una cengia, proprio all’inizio delle fessure. Quindi si va. Sgomento. Adesso a chi tocca? Siccome da me traspare in modo evidente che, se di entusiasmo per questa schifezza non ne ho mai avuti, ora ho anche il groppo alla gola, Jacopo si convince che tocca a lui.
Si lega, prende il materiale,si tira sulle corde con il nostro aiuto: la sua pellaccia è appesa ad un friend, infilato in una lama capovolta in un momento di disperazione. Molto velocemente raggiunge la zona dei morti viventi , poi, ripresosi dallo shock, dà il via alla sua opera di cesellatore.
Una serie di piccoli nut, di stopper, movimenti leggeri per un metro, due…un chiodo: è buono, canta, la lama tiene…Si assicura, si rilassa, ci rilassiamo anche noi: è già tornato più vicino alla vita. Poi la lama ritorna pessima e un altro chiodo la staccherebbe, la nebbia è fitta e i suoi movimenti puntano alla mera sopravvivenza  fin quando, finalmente, raggiunge un punto di sosta.
Risaliamo le corde che ha fissato, mi sento stanco, spero che si torni; non ho ancora fatto niente, e loro in due trentacinque metri  in quattro ore. Toccherebbe a me andare da primo, ma la parete mi pesa sulle spalle, mi schiaccia anche se è invisibile e nascosta dalla nebbia.
Mi salva  lo scoppio di un temporale.
Battiamo in ritirata, giù veloci come scoppiettate, dormiamo sotto un enorme  sasso trasformato in baita ; scioccato, non riesco neppure  a trovare l’energia per essere contento.
Alcuni giorni dopo si torna alla carica, le previsioni promettono il bello. Dopo duecento metri di parete io non ho ancora fatto nulla; anzi per ore e giorni ho oziato alle soste cercando una posizione ideale, che non durava mai più di cinque minuti. Le soste, naturalmente, sono spaventose; come ci arrivo, sono terrorizzato, e per la prima ora i brividi mi solleticano la pelle sulla schiena e sui polpacci: esiste solo il mio involucro, dentro c’è il vuoto. Passo il tempo applicandomi il minimo di venticinque sicurezze e rafforzando al massimo la sosta che, per fortuna, di solito è già buona.
Dopo la prima tragica ora, oso guardare timidamente verso il basso: non di botto, ma a tappe; quindi col compagno di turno recupero il saccone. Questa operazione mi fa acquistare una certa scioltezza nei movimenti, tanto che poi mangiucchio qualche cosa,bevo, mi rilasso, riesco perfino a  parlare. Adesso sono alla sosta sopra il tettone  con Jacopo. Quando con lui l’argomento che va di più è il sesso; visto che qui se ne può fare poco, si cerca almeno di parlarne molto. Il Bosca ovviamente è su, ha appena superato un tratto in libera difficilissimo: aderenza verticale.
Adesso è sparito sopra lo strapiombo, non risponde ai nostri richiami, ed è fermo da un’ora. Sgranocchio alcune noccioline; saranno tre ore che ce ne stiamo qua appesi e da spaventosa,  questa sosta è quasi diventata famigliare. Improvvisamente, senza che si abbia il tempo di pensare cosa stia succedendo, le corde vanno in tiro e in tre minuti il Bosca è di nuovo tra noi, contento di rivederci dopo quella che gli era sembrata un’eternità. So che questa volta non posso sottrarmi alle mie responsabilità, ma mi sento meglio: dopo tre giorni di vita sulla parete mi sono quasi abituato, e poi ho voglia di andare a vedere cosa c’è sopra lo strapiombo. Insomma, mi sento finalmente nell’animo giusto per andare da primo.  Così, dopo essermi legato, in meno di cinque minuti lascio la zona dei semivivi (sosta) e divento uno “zombi”,raggiungendo coi jumar l’ultimo chiodo lasciato dal Bosca. Poi resto appeso per un periodo lunghissimo, mentre nello sconforto più totale cerco di venire a capo  della situazione. Primo: sopra lo strapiombo non c’è altro che … un altro strapiombo; secondo: ho davanti una fessura quasi invisibile e non so dove andare. Siamo usciti dai diedri e siamo in aperta parete, che è enorme e sembra non finire mai. Dei miei compagni non si sente neppure la voce, ed è come se no esistessero; mi sento terribilmente solo e impotente, appeso a questa sconfinata colata di granito.
Lentamente inizio a smuovermi, cerco di uscire da terpore, mi scrollo, prendo un chiodo: è una lamella americana, e se questa non funziona siamo in merda.
Prospetto un bivacco sulle staffe e mi viene il magone; avrò già perso un’ora e sono ancora qui. Cerco, frugo, mi allungo, salgo gli ultimi gradini delle staffe, trovo l’equilibrio e mi stabilizzo. “Se ‘sta fessura è cieca m’incazzo come una iena”, do un colpo leggero, due tre…
Ullalllà, il chioda va e salgo di un paio di metri. Sopra, riesco a mettere una lamella gialla, è corta ma entra tutta: “ma guarda che culo”.
Sto rinascendo, essere solo non mi pesa più, anzi mi diverte, mi scappa da ridere, respiro a pieni polmoni e la parete è solo un gioco col quale scoprire se tra un metro la fortuna è ancora con me.
Dopo  una quindicina di metri trovo un bel punto di sosta: una fessura per chiodi angolari, nonché un lussuoso terrazzino largo dieci centimetri e lungo cinquanta sul quale appoggiare finalmente i piedi. L’unico problema è che non si capisce se sopra lo strapiombo ci sia la cengia o no; ormai sono le cinque di sera, se non la troviamo entro un’ora siamo fregati.
Riparto seguendo un’incredibile fessura cieca che , tagliando lo strapiombo, conduce in breve alla cengia.
Sebbene questa non sia l’eden che avevamo sognato, riusciamo a sistemarci per la notte, chi più chi meno, abbastanza comodamente e finalmente liberi dalle intricate ragnatele di sicurezza. Il giorno dopo ci sentiamo più rilassati, per fortuna la colata di granito si adagia un po’, o meglio non è più strapiombante; si va bene con difficoltà tranquille sia in libera che in artificiale. L’unico casino è che il tempo peggiora e grandi nuvoloni pascolano sulla parete. È una giornata totalmente grigia: grigia la roccia, grigie le nubi, grigie le nostre facce scavate dalla stanchezza. Però si va avanti, sebbene ci rendiamo conto che occorreranno ancora due giorni pieni a dir poco. Mi sembra strano, le nebbie si fanno sempre più fitte, il tempo peggiora, ma me ne importa poco; c’è solo questo mondo fatto da noi tre, da questa parete e dalle nebbie che la nascondono.
Non vediamo la base, non vediamo la fine, a malapena ci vediamo tra noi e il tempo è segnato dai nostri movimenti scontati, dai suoni ritmici e da una grande tranquillità. Mi sono adattato benissimo a questa vita, e ad ascoltare la voglia me ne starei volentieri qui senza far nulla , a seguire con lo sguardo le nubi che salgono dalla valle, ci investono e se ne vanno lasciandoci a dosso la loro umidità.
In ogni caso questa è la giornata in cui ci alziamo maggiormente. Sappiamo di essere a metà parete: sono tre giorni che non scendiamo.
Sulla destra, una placca liscia di una trentina di metri ci separa dal sistema di fessure parallele, seguendo il quale dovremmo raggiungere la cima . a turno ci alterniamo a chiodare a pressione e, dovendolo fare di traverso, ci accorgiamo che è molto faticoso: tensione nei polpacci, negli avambracci, tensione un po’ dappertutto per mantenersi in equilibrio. E fatica.
Impegnati come siamo, non ci rendiamo conto che una della tante nubi che salgono lungo la parete non porta solo un po’ di umidità, ma è un vero e proprio fiume.
Siamo in piena parete quando i primi effetti di una perturbazione  che durerà quindici giorni  si fanno sentire. Beh, l’importante è bagnarsi subito e ovunque, “così poi non te ne accorgi più”.
Sono le cinque di sera quando incominciamo la discesa: tre corde doppie da cinquanta metri l’una, con l’acqua che ci scroscia a dosso e il discensore che, strizzando le corde, produce un’inesorabile cascatella sulla faccia e sul collo, colando poi sullo stomaco.
“Se qui ti distrai un attimo ci lasci veramente le palle “.
Dal bivacco tentiamo la discesa con le corde fisse, la parete ormai è un fiume nel quale naufraghiamo .
Ma siamo veloci, sincronizzati e con le corde fisse, arriviamo quasi giusti giusti in cima allo zoccolo.
Che fare?
Si scende in libera: quinto,  quinto più-più-più senza corde.
“attento a non fare pirlate”, dico tra me e me.
La parte peggiore è dove c’è l’erba; la roccia bagnata tiene di più, teniamo duro, abbiamo la salvezza a poche decine di metri. Quando tocchiamo terra sono passati in tutto quaranta minuti dall’inizio della discesa.
Ci abbracciamo come quando si raggiunge la vetta: questa è la nostra vetta, questo bellissimo pascolo pieno di pozzanghere, battuto dal diluvio universale, in questa fosca sera di metà di settembre.
Avere i piedi piantati a terra vuol dire che stasera saremmo a casa, vuol dire mangiare bene, dormire, fare all’amore,; dall’inferno passare direttamente in paradiso.


...CONTINUA...


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